"Ho sentito della musica, l'organo..." dissi ad un boy.
"E' il
Docteur" m'informò "Suona tutte le mattine prima della colazione".
Gironzolai
un poco nei dintorni quindi incontrando Sandro e Papà. Stavano facendo
il bagno lì nel fiume. Erano in mutande eccitati e ridevano come
bambini. Li osservai per un po' abbagliata da una luce così tersa, poi
mentre si preparavano ad uscire dall'acqua, gettai loro l'asciugamano
appoggiato sulla riva e sorrisi. Tornammo insieme verso casa, per
raggiungere il nostro ospite e consumare con lui la nostra prima
colazione africana. Eravamo in tanti, adesso, intorno al tavolone di
legno grezzo. Tra gli altri, un medico giapponese, alcuni volontari
europei e degli infermieri di colore. Sandro e John avevano conosciuto
già tutti il giorno prima, mentre io mi ero eclissata.
Quasi
tutti parlavano francese, la mia prima lingua. Fui perciò contenta di
comprendere ciò che veniva detto. Sandro, seduto vicino a me domandava:
"Scimmietta, traduci per favore". Io ascoltavo attentamente e poi
traducevo. Sandro era l'unico a non comprendere, ed io felice nel
potermi rendere utile. Ciò mi faceva sentire parte del gruppo.
Il
dottor Schweitzer ascoltava, come tutte le mattine il resoconto sui
malati giunti durante la notte. Oppure discuteva dei casi più gravi, di
coloro che si sarebbero dovuti operare.
Organizzava così le
sue giornate, alla buona, tra una tazza di thé e dei bambini gioiosi
che correvano intorno a tutti noi.
La nostra presenza in
quella mattinata rendeva poi tutto particolarmente felice. Con noi
erano giunti quintali di medicine e tutti speravano in qualcosa in più.
Un miracolo, forse, per i loro cari ricoverati. L'ospedale era a corto
di tutto, prima del nostro arrivo. Avevo già notato delle putride bende
stese ad asciugare al sole. Avevo già potuto vedere, nella mia
passeggiata mattutina, una lunga fila di persone avvicinarsi al
capannone centrale, dove era allestito un primo soccorso.
Nel
villaggio si era poi sparsa la voce che un visitatore d'eccezione era
arrivato carico di medicinali sacri e anche munito di una macchina che
aveva il potere di fotografare le parole e di farle risentire.
Si,
era proprio una mattinata speciale! Di nuovo tante persone si stavano
affollando intorno a noi. Tanti corpi neri appena ricoperti di stracci.
Tanti visi difficili da scrutare. Solo i denti bianchi risaltavano così
bene su visi veramente indefinibili ancora per me.
I bambini
poi mi tiravano per le braccia, si attaccavano al mio collo. Annusavano
i miei lunghi capelli lisci e mi trascinavano infine dai loro parenti
ammalati, verso un capannone, posto proprio in mezzo a un spiazzo
fangoso su cui si dividevano vecchi binari arrugginiti dove
probabilmente non era mai passato nessun convoglio. Lungo ad essi,
erano disposte altre capanne fatte di bandoni di latta, mattoni di
fango.
Sandro mi seguiva ovunque andassi, con la sua rolley
flex sempre pronta. Non faceva che scattare foto e cambiare lampadine
al flash all'interno dei reparti posti nella semioscurità.
Ciò
che io vidi mi spezzò letteralmente.
Corpi ricoperti di piaghe
purulente, arti completamente mancanti per via della lebbra, bambini
stesi su brandine di legno dai visi ricoperti di mosche.
Terribile
e spaventosamente crudele! Cercai di non far trapelare
quell'improvvisa, intensa stretta al cuore. Nemmeno per un attimo. Per
tutti ebbi un sorriso. A tutti toccai la spalla, una mano. A tutti
chiesi il nome, con una generosità che solo i volontari lì presenti
sapevano dare, oppure una giovane come me, non ancora contaminata da
una società dei consumi.
A dire il vero non ero mai entrata
in un ospedale in vita mia. Nemmeno nella mia città, Roma.
Era
la prima volta in assoluto e l'approccio davvero drastico. Ben sapevo
però che da noi I malati erano soli. I famigliari potevano andare a
trovarli solo in determinate ore del giorno e per visite brevi. A
Lambaréné invece, il malato si faceva accompagnare dalla moglie, dai
figli e si portava dietro la capra e la mucca. Era così circondato in
ogni momento dai suoi cari che continuavano vicino a lui la loro vita
di tutti I giorni. Questo faceva parte integrante della terapia del
dottor Schweitzer, altrimenti I malati non si sarebbero lasciati curare.
Ciò
che più mi colpì era l'atmosfera. Non triste e angosciante come penso
fosse per un malato in perenne attesa, ma sereno. La forza vincente di
quel luogo era dunque un ospedale che ospitava tante piccole comunità
che, tutte insieme formavano il villaggio.
Un villaggio
costruito sul bisogno, sull'altruismo e sulla generosità dove un grande
vecchio vegliava incoraggiando e spingendo a sperare.
La
vita si svolgeva lì proprio come dall'altra parte della collina, che
visitai in seguito. I bambini giocavano con la terra, le mucche
venivano munte davanti ad una capanna improvvisata. I vecchi seduti
vicino ad un uscio, fumavano una sorta di sterpaglia arrotolata, e
aspettavano con gli altri che un parente guarisse, per ritornare poi
insieme alla normalità della sua vita.
Visitai tutto già il
primo giorno, anche il reparto maternità, accompagnata da Sandro dalle
mille domande, che m'incitava a tradurre all'infinito. "Non è francese
questo. Non posso tradurre" gli dissi quando anch'io non comprendevo
"E' lingua Bantu".
Gli abitanti di quei luoghi erano per la
maggior parte Pigmei, piccoli uomini dediti alla caccia e al raccolto.
A volte accadeva però che si mischiassero con i Bantu, tribù più
sedentarie che conoscevano, seppur in modo molto approssimativo,
l'agricoltura.
Nel frattempo John spariva per conto suo alla
ricerca di storie da imprigionare sui suoi nastri magnetici e nel suo
cuore.
Appresi molto parlando con I nativi in quei pochi
giorni di permanenza nel Gabon. E gli abitanti del luogo si
affezionarono a noi. Cercavo, inoltre, di rendermi utile per quanto mi
fosse permesso. Aiutavo gli incapaci a nutrirsi, le infermiere a
fasciare le piaghe, membra invalide a girarsi sul pagliericcio.
A
fianco del dottore giapponese imparai persino a vaccinare I bambini.
Inoltre portavo messaggi verbali ai parenti dei malati rimasti
dall'altro lato della collina, per poi ritornare sempre carica di doni,
alla casa che mi ospitava.
"Petit cadeau". Piccoli regali: una
pelle di serpente, un cesto intrecciato, un fiore, un bracciale di
perline multicolori. In un momento d'abbandono mi avvicinai all'unico
tavolo circondato da panche per scrivere sul mio diario le emozioni che
stavo vivendo, quando sorpresi le docteur a fare la stessa cosa. Lui
usava mozziconi di matita e fogli già usati. Mi accorsi allora che non
avevamo pensato a portare delle risme di carta per lui e gli porsi I
miei quaderni vuoti e le penne a biro che avevo portato con me.
John
era raggiante. Stava imprigionando mille voci, mille canzoni nella
scatola magica e di sera, al lume delle lampare sotto il portico le
faceva risentire.
Il suo registratore era collegato con un
lungo filo all'unica presa di corrente della casa, azionata da un
generatore. La stessa cui era collegato il prezioso organo del Dottor
Schweitzer. Un organo antico e riccamente scolpito. Gli era stato
regalato nel lontano 1913 dalla società Bachiana di Parigi ed era tutto
foderato di zinco per essere difeso dalle termiti. Una sera il dottor
Schweitzer ebbe un triste presentimento e volle il microfono tutto per
sé. Sentiva incombere la fine su di lui. "Sono vecchio. 88 anni sono
troppi!" si lamentava. Espresse così il desiderio di lasciare I suoi
pensieri al mondo. Un suo testamento spirituale!
"Cosa pensa
Professore del mondo?" Iniziava a domandare John controllando che le
bobine girassero normalmente sul registratore
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