C'era una sola hostess a bordo, tanto anziana e premurosa da sembrare una
zia. Arrivava ogni tanto offrendoci panini imbottiti come se fossimo ad
una scampagnata e del caffè tenuto caldo in termos. John ed io
detestiamo il caffèè. Sandro ne beveva a litri.
Aprì
definitivamente gli occhi all'improvviso, abbagliata più dalla luce che
dall'ennesimo sussulto. Guardai fuori dell'oblò pronta a rituffare gli
occhi nell'intensità azzurra del cielo invece sotto a noi si presentava
un mare di fitta vegetazione.
Un fiume largo tagliava la
giungla in due come una lunga ferita. Stavamo scendendo e man mano che
l'aereo si avvicinava nuovamente alla terra s'intravedevano delle case
basse costruite ai bordi del fiume. Sul di esso galleggiavano piccole
imbarcazioni in movimento. Poi proprio sotto di noi, una striscia
d'asfalto, la pista d'atterraggio.
Un'altra nazione ci
attendeva, il Gabon. Un mondo di cui a malapena avevo sentito parlare,
ma la sua capitale aveva un nome che da solo, mi riempiva d'entusiasmo:
"Librevolle" Città libera.
Il volo era così giunto alla sua
conclusione. Avvicinandomi con gli altri all'uscita rabbrividì un
attimo, colta da un senso di vertigine, nel vedermi posta così in alto
dal suolo.
Sotto di noi, degli uomini dalla pelle nera come il
carbone, stavano già avvicinando una scala stretta e ripida, da
incollare alla porta del velivolo. Tutto era così nuovo per me.
L'informazione non era come oggi, a portata di mano, ma tutta da
scoprire e sulla propria pelle.
Aprirono il portellone e
un'aria piacevolmente calda e umida mi accarezzò il viso.
Ancora
una volta mi trovai nella difficoltà del mio compito quale
collaboratrice nel trasporto del baule.
La discesa dal
velivolo si presentava ben più ardua della salita. Uno scalino per
volta ed un padre brontolone: "Non così non lo strusciare .Alzalo ti
dico.."
In basso, sotto l'apparecchio ci aspettava un nugolo
di negretti festosi. Era raro l'apparire di un aereo della Croce Rossa
da quelle parti, e suppongo ancor più raro vedere un gruppetto di
"bianchi" arruffoni e disastrati intorno ad un baule di legno
trascinato per le cinghie. "Un cadeau pour nous?" Un regalo per noi?
Sulla
pista la pancia dell'aereo fu nuovamente aperta e le casse,
contrassegnate da una croce, scaricate e portate velocemente su alcune
Jeep venute a riceverci.
Anche noi fummo letteralmente
caricati.
Non so quanta polvere mangiammo su strade sterrate,
mentre lo stomaco aveva ripreso nei suoi rimbalzi pazzeschi, per tutte
le buche in cui andammo a finire, strada facendo, fino a giungere in
vista di un molo primitivo. Delle imbarcazioni ci attendevano e anche
interi nuclei familiari di una popolazione locale in festa.
Intorno
a noi si levavano ora grida gioiose, s'improvvisavano balli. Tutti
cercavano di toccarci. Tutti volevano un abbraccio. Per fortuna molte
persone aiutarono a trasportare casse e registratore dalle Jeep alle
barche con l'apprensione ormai incontenibile di John.
Come
Dio volle, stavamo ora navigando, verso Lambaréné. Scivolavamo
dolcemente, lasciandoci cullare questa volta sul grande fiume Ogooué.
La temperatura era mite. I miei occhi sbarrati per la meraviglia della
natura che ci circondava. I due giovani uomini si stavano lasciando
andare in balia all'esaltazione.
Eravamo così lontani da casa.
Proiettati di colpo in un'altra dimensione. Pensai ai miei compagni di
scuola. Certamente si trovavano in classe in quello stesso momento,
mentre io, in Africa equatoriale, a soli 17 anni ed i capelli, come
sempre, spettinati al vento, sguardo sperduto nello spazio e cuore in
gola!
Nel nostro navigare lento sul fiume, altre
imbarcazioni ci raggiunsero. Delle piroghe cercarono di avvicinarci.
Tutti volevano sapere se davvero le casse contenevano medicinali.
Domandavano i nostri nomi, e se li passavano da persona a persona come
un'eco sempre più storpiato, tutto ciò continuando a navigare.
Una
intera scorta d'onore ci stava accompagnando adesso, mentre nasceva
spontanea una festa sul fiume. Una festa improvvisata con canti e gioia
proprio vicino a noi, intorno a noi, mentre sull'altra sponda, il suono
dei tam tam, ci dava anch'esso il benvenuto scandendo parole sui
tamburi. Giungemmo dunque in molti sulle sponde di un'altra riva.
Proprio in tanti a Adolinanongo.
Mi parve che tutta l'Africa
fosse presente insieme a noi, piombati chissà da quale continente di
bianchi, mentre l'unico uomo bianco che ci appariva in lontananza, era
un vecchio ossuto che già sventolava, in aria, un capello da
cacciatore. Il dottor Albert Schweitzer sicuramente!
Man mano
che ci avvicinavamo vidi i suoi lunghissimi baffi rivolti in su ed un
sorriso triste. Era tutto vestito di bianco, come per apparire meglio,
come per non perdersi forse?
John e Sandro alzarono a loro
volta le braccia in segno di saluto. "Ont vous attendez avec
impatience". Vi attendevamo con impazienza, disse il vecchio quando
riuscimmo a raggiungerlo.
I due uomini saltarono giù agili
dalla nostra imbarcazione sbilanciandola, senza badare a me, che per
poco non caddi in acqua.
Il Dottor Schweitzer mi guardò con
curiosità senza chiedere nulla, mentre in me entrava tutta l'emozione
del mondo.
"Ma fille" disse allora John. "E' voluta venire non
c'è stato verso lasciarla a casa. Voleva conoscerla".
"Je
m'appelle Docteur" mi disse allora con una carezza. "Tutti qui mi
chiamano Docteur" e con grande semplicità si avviò lungo una strada
polverosa aspettandosi di essere seguito.
Guardai il
registratore, interrogando John con lo sguardo. Anche lui parve
preoccupato vedendolo trasportare con tanta disinvoltura da un paio
d'indigeni incuriositi.
"Doucement. C'est une boite magique".
Piano è una scatola magica!
Quante ore erano trascorse dalla
nostra partenza dall'Italia? Quante ore senza un pasto completo, senza
potersi distendere nel sonno? Non lo avrei mai saputo, ma sicuramente
erano passati 10.000 km di distanza e con un mezzo che, si può ora ben
dire, di fortuna.
Barcollavamo. Le nostre gambe faticavano a
ritrovare un equilibrio. Fui dunque ben grata ai due giovani che mi
avevano evitato il trasporto della "scatola magica".
Molti
indigeni, si erano allineati lungo la riva fino alla strada.
Sbarcavano
così le casse dalle imbarcazioni, con un passamano veloce i piedi nudi,
sempre cantando, ritmando la musica con passi di danza.
Amai
subito i loro canti, teneri, semplici. Si sarebbero quasi dette delle
nenie per bambini.
Altissime palme costeggiavano il viale che
stavamo percorrendo, sotto le quali si potevano vedere delle capanne
con tetti formati da foglie essiccate. Viottoli appena accennati, le
collegavano tra loro.
"Dov'è l'ospedale Docteur?" chiesi
"Mais
le voici" Eccolo rispose indicando una baraccopoli proprio davanti a
noi.
Sorrise da sotto i suoi baffi, la testa inclinata,
guardandomi enigmatico. L'avremmo potuto visitare più tardi ci disse
ancora proseguendo verso la propria dimora.
La sua era una ben
semplice casa, ordinata nel suo insieme. Costruita interamente di legno
e dal tetto spiovente. Alte palme e banani la circondavano ed era quasi
interamente ricoperta dalle buganvillee. All'esterno, in un patio, ci
attendeva una tavola imbandita, intorno alla quale delle donne indigene
si stavano dando un gran da fare. Il nostro ospite ci fece cenno di
accomodarci su delle panche offrendo a tutti succhi di frutta tropicale.
"Posso
andare al..." chiesi.
All'interno della casa mi indicarono una
porta. Mi guardai un attimo intorno. Mi trovavo in un largo androne.
Due sole le porte, quella di un primitivo bagno dove l'acqua era
raccolta in damigiane di terra cotta, ed un'altra in fondo al locale.
Lungo
il resto del corridoio delle lunghe tende scendevano dal soffitto
dividendo gli spazi in vari scomparti. Sembrava trovarsi in un'enorme
camerata con tanti letti allineati lungo una parete. Ero così stanca
che ne scelsi uno qualsiasi e mi sdraiai.
"Solo due minuti"
pensavo per cadere d'incanto in un sonno profondo.
Passò
molto tempo invece. Tacquero i canti, scomparve l'allegro gridare e il
cicaleccio delle donne. Si chetarono i galli dispettosi, terminò ogni
confusione.
Immersa com'ero nel sonno, le membra finalmente
distese, sognai due ruvidi baffi baciarmi la fronte e delle mani
stanche coprirmi con un lenzuolo.
Mi risvegliai molte ore
dopo, con il vociare nuovo dei bambini, le stridule voci di giovani
donne, il chicchirichì di un gallo noioso e il dolce suono di un organo.
Bach!
Qualcuno stava suonando Bach!
Mi guardai intorno e non vidi
nessuno all'interno della casa. La musica che si spandeva nell'aria
proveniva da una porta chiusa in fondo al corridoio. "La stanza del
Docteur" pensai, e uscii in punta di piedi, non osando disturbarlo.
Fuori,
la tavola circondata da panche era nuovamente imbandita: nescafé, succo
di cocco, thé e tanta frutta tropicale
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