"Vengo anch'io" dissi decisa, piantando I piedi, ben saldi, al centro della
stanza.
John, sorpreso, interruppe il suo organizzare quel
prossimo viaggio nel Gabon.
Stava impartendo ordini sul modo
in cui si sarebbero dovuti riunire, enormi quantitativi di medicinali,
bende, vaccini, latte in polvere e altre necessità primarie che
attendevano ammucchiati nel nostro garage e nei box di tutti I vicini.
Le automobili, sfrattate, erano temporaneamente parcheggiate in strada.
Le
donazioni erano arrivate numerose, nei giorni precedenti, con tutti I
mezzi immaginabili. Grandi ditte avevano fatto scaricare casse intere
di prodotti. Gruppi religiosi avevano raccolto presso I fedeli ogni ben
di Dio prima di consegnarceli. Era anche accaduto che qualche singola
famiglia ci portasse un pacchetto, del vestiario. Le scuole avevano
voluto partecipare raccogliendo le lettere che I bambini indirizzavano
ai loro coetanei africani.
Stavamo vivendo, da giorni, in un
generoso confuso subbuglio.
John stava ora cercando di
procurarsi dei mezzi per trasferire l'ingente carico fino
all'aeroporto, organizzandosi con l'aiuto di volontari. Lì un aereo
della Croce Rossa gli sarebbe stato messo a disposizione. Sei o sette
persone erano riunite, da ore, a casa nostra. Il sole stava
tramontando, portando con sé un tiepido pomeriggio romano. Nella stanza
un acre odore di fumo. Ovunque erano sparsi fogli scribacchiati e
cicche di sigarette. Una gran confusione. L'unico telefono appoggiato
in terra, non faceva che squillare.
Io entravo ed uscivo in
continuazione dalla porta, portando ora questo, ora quell'oggetto.
Tutti chiedevano qualcosa, senza pertanto prestarmi la pur minima
attenzione.
"Vengo anch'io!" ripetei con forza. John, mi
guardò allora stupito e poi scandalizzato, da un comportamento alquanto
ardito, che non riconosceva in me. Solo allora, credo, gli altri
notarono la mia presenza.
A casa, ero sempre stata considerata
una "sciocca nata" da entrambi I miei genitori. Per John, mio padre,
noto radiocronista, in particolare, ero un animaletto di pelouche da
accarezzare istintivamente se gli passi vicino, oppure, un pupazzo da
tiranneggiare, secondo i propri umori. Era sconcertato e sorpreso, dal
tono della mia nuova voce, alta e decisa. "Ragiona" continuai piantando
gli occhi ben fissi nei suoi "come farai a trasportare in giro, per
mezzo mondo, da solo un apparecchio da registrazione che peserà 50 o 60
chili? Chi ti aiuterà su e giù per la scaletta degli aerei? Da una
imbarcazione all'altra, dimmi chi ti aiuterà?" L'entusiasmo per il
recente successo ottenuto nell'aver raccolto, con una trasmissione alla
radio francese, in contemporanea di quell'italiana e inglese,
l'attenzione di mezza Europa, si fermò per un attimo. John si era
dimostrato davvero grande con la sua "Chene du bonheur" in favore del
dottor Schweitzer e dei suoi diseredati in terra d'Africa. Già, il
registratore! Occorreva imbarcare anche quello. Soprattutto quello. Per
John era più importante di tutto il resto. Come aveva fatto a non
pensarci?
Papà mi fissòancor più profondamente con quei suoi
occhi azzurri così trasparenti, così strani.
D'un tratto il
pupazzo si era messo a parlare. Non solo, aveva anche espresso un
problema. Il trasporto del registratore! Come non averci pensato?
John
era indubbiamente un pioniere delle comunicazioni a distanza, e anche
un reporter geniale in quei primissimi anni sessanta.
Al suo
attivo, John aveva ricevuto una educazione di livello internazionale.
Aveva una famiglia in diplomazia, conosceva svariate lingue e
soprattutto possedeva la padronanza dello spazio. Ovunque si trovasse
pareva essere a casa sua.
Inoltre, possedeva l'incantesimo di
seguire sempre il suo istinto. Un istinto veramente valido anch'esso
dato che lo conduceva sempre in prima linea per ciò che riguardava il
suo impegno di libero professionista. La sua missione come amava
definirla lui. Ed era uno scoop dietro l'altro. Unico ingombro proprio
quell'apparecchio, ancora primitivo, per un modo di muoversi così
veloce. Non era adeguato ad una personalità e un tempismo sempre in
corsa.
Il registratore allora, era un baule di legno enorme,
contenente fili e valvole, non transistor degli anni ancora a venire.
Ed era pesante. Per trasportarlo da un luogo all'altro occorrevano
sempre due persone. Una per parte a quel mobile, per cercare di
sollevarlo, aggrappate alla cinghia di cuoio che l'avvolgeva, una volta
chiuso.
John si doveva poi, ancora caricare sulle spalle una
borsa contenente metri di filo elettrico, con a capo, un microfono che
pareva una lampadina. Più che un radiocronista assomigliava ad un
facchino. Un portatore con molti sogni in testa, innumerevoli domande
da formulare, tante conoscenze e posti ancora da incontrare.
Egli
credeva pazzamente nel suo mestiere: l'andare, il cercare, l'indagare
sempre. La sua vita? Un'avventura! La ricchezza? Presentare questa vita
e I suoi personaggi al prossimo. Ritrasmettere suoni, impressioni,
vibrazioni!.
Eravamo una ben strana copia davvero sulla pista
dell'aeroporto di Roma quella mattina. Piazzati sotto l'ala di un Jet
ad elica, entrambi con i capelli in balia ad un forte vento. Sopra di
noi un cielo plumbeo che minacciava pioggia.
John controllava
meticolosamente, sotto la pancia dell'uccello metallico, il carico dei
doni ricevuti ed arrivati miracolosamente fino a lì. Io, immobile come
un soldatino, alla guardia del "baule" ai piedi della scaletta,
piccola, magra e già intirizzita dal freddo.
Sandro, il nostro
fotografo e parte integrante della spedizione non era ancora arrivato e
John si stava davvero innervosendo per questo.
"Lo vedi?" mi
gridava alzando appena il capo, mentre continuava a contare le casse
man mano che venivano caricate.
"Lo vedi?" Facevo finta di non
sentirlo, per non innervosirlo ulteriormente pur tenendo gli occhi ben
fissi sul cancello della palazzina aeroportuale aperta sulla pista.
Anche
un aeroporto era diverso allora. Raggiungere un velivolo era come
attraversare una piazza per raggiungere una nuova momentanea dimora.
"Eccolo! Sta' arrivando" gridai a mia volta scorgendo un piccolo uomo
che correva verso di noi trafelato.
Anche l'equipaggiamento di
Sandro era di notevoli proporzioni. Il pover'uomo scompariva quasi
sotto le numerose apparecchiature fotografiche. Cercava inoltre di
trascinare una pesante borsa di pelle ciondolante raso terra. Le tasche
del suo abito trasandato erano rigonfie di pellicole e lampadine.
Appena in tempo sull'orario stabilito.
La stiva del velivolo
si stava già richiudendo dietro al prezioso carico. I piloti intenti a
provare, per un'ultima volta, il funzionamento dei comandi. Finalmente
ci stavamo imbarcando.
La ripida scaletta fu percorsa
parecchie volte in su e giù per caricare tutto ciò che doveva essere
portato a bordo. Per ultimo il bene più prezioso: la macchina parlante,
il baule!
Fummo in tre ad issarlo con fatica. Uno scalino e
fermata, un altro ancora e sosta fino a poterlo adagiare sul pavimento
dell'aereo.
Il portellone era ancora aperto quando mi sedetti
vicino al finestrino allacciandomi una primitiva cintura di sicurezza.
"Ma
che fa? Viene anche la scimmietta?" chiese Sandro stupito. Nessuno si
era preoccupato di informarlo. Anche lui aveva una figlia della mia età
più o meno, lasciata alle cure della mamma, al riparo nella sua casa.
Mio padre alzò le spalle come per dire: "Non farci caso. Sa badare a se
stessa."
Non tenni conto del trascorrere del tempo in quel
primo volo della mia vita. Non ricordo proprio quante volte la pancia
mi sia saltata in gola, per i sussulti causati dai vuoti d'aria, prima
di riassestarsi definitivamente al suo posto.
Trascorrevo il
tempo in un dormiveglia continuo, mentre i due uomini parlavano
ininterrottamente di lavoro. Si scambiavano le proprie esperienze,
litigavano per le idee politiche di Sandro e apolitiche, umanistiche e
ideologiche di John.
P A G I N E > > > >
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