K A T M A N D U

Katmandu si estende ai piedi dei bianchi Titani eternamente ghiacciati: i picchi della catena Himalayana. E'una valle di dannati, di folli e di inestimabili sognatori. Vi si respira un'atmosfera speciale insieme all'aria rarefatta, si vive un miscuglio emotivo esilarante che oscilla continuamente tra il sacro ed il profano. Ci si sofferma in entrambe le sensazioni disperandosi per un incontro tremendo o esultando alla visione di ciò che può essere solo beatitudine. Katmandu è l'ultimo dei confini tra sogno e realtà, l'ultima scelta dell'anima tra inferno e paradiso.
Nella città predominano ovunque templi di legno cadente. Sono edifici colorati di verde, di blu, scolpiti con figure allegoriche oscene inneggianti al kamasutra. Vi si fondano culture indiane e cinesi in un miscuglio grottesco. Le case, tutte affacciate su strade polverose, sono ormai ridotte ad ammassi confusi di legno tarlato.Ovunque errano esseri umani incuranti dello scorrere del tempo. La giornata che per loro si sta svolgendo è l'unica ad avere importanza.
Il viaggio si stava prospettando un' interminabile camminata, per il compagno della mia vita e per me, un muoversi continuo, lasciandoci lacerare dentro, morire per poi risorgere e perdersi in gioie esaltanti.Un susseguirsi continuo tra visite negli inferi e un abbracciare i cieli più puri. Abbiamo cercato la divinità vivente nella lontana periferia di Katmandu e abbiamo trovato una bambina, sporca e lacera affacciata al balcone di un tempio, intenta a guardare dei suoi coetanei, luridi, scalzi e seminudi giocare nel cortile sottostante, a rincorrere dei ratti, acchiapparli e stringerseli al petto.Al più veloce, più scaltro lei offriva un'applauso battendo insieme le mani aperte come fanno tutti i bambini.
La piccina aveva cinque anni, sei forse ed era stata scelta tra le tante figlie dei dignitari del paese per essere rinchiusa fino alla pubertà, nella solitudine quasi totale, custodita solo da sacerdotesse acide e vecchie.
Sarebbe potuta uscire dal tempio solo una volta all'anno, portata in processione, per le vie della città, seduta su un baldacchino, essendole vietato di poggiare i piedi su una terra calpestata dai suoi sudditi. Quel giorno sarebbe stata vestita riccamente e ornata con ori e gioielli, troppo pesanti per lei tanto magra e gracile.Sarebbe stata acclamata, toccata, stordita da una folla osannante e pazza, lei così timida e impaurita, così schiva. Per un giorno solo le sarebbe stato permesso di guardare le case, le vie polverose, passare davanti a templi meno importanti del suo, non importava se cadenti, tarlati o mostranti oscene figure. Troppa luce l'avrebbe disturbata quel giorno, il sole accecata, e l'aria fatta sentire male. Ma avrebbe potuto guardare a suo piacimento le alte vette della catena Himalayana, e chiudersele dentro per poi poterle rivedere con la mente, quando quel giorno di gloria popolare sarebbe infine terminato. E l'indomani qualcuno di passaggio, come noi, l'avrebbe potuta ancora vedere mentre affacciata al balcone, guardava con invidia altri bambini, con i quali non avrebbe mai potuto giocare, giù nel cortile, mentre per lei il tempo doveva passare , solo passare..e tutto ciò per essere Dea. L'unica vivente in tutto il mondo! e noi continuavamo le esplorazioni camminando in lungo e largo per la cittadina, tra viottoli polverosi che collegavano assurdi ripari chiamate abitazioni, illogici mercati dove non c'era niente da comprare, angoli appartati dove si nascondevano vagabondi, erranti e esseri accucciati su sudici giacigli persi in un irrecuperabile oblio.
Ai margini di un fiume abbiamo assistito ad una cremazione. La cremazione di un povero! La pira di legno acceso su cui il suo corpo posava, era ben poca cosa. Lo spazio appena appena sufficiente per contenere il solo busto mentre le estremità del corpo pendolavano fuori di esso. I resti di un essere, che era pur stato un uomo, giacevano totalmente nudi e bruciavano lentamente, troppo lentamente, mentre i suoi famigliari raccolti intorno si dividevano gli stracci che lo avevano avvolto in vita.Il tutto tenendo d'occhio le misere fiamme e non far disperdere nemmeno un tizzone, e rimboccando le carni fino alla loro totale trasformazione in cenere che sarebbero poi stata gettate nelle acque del fiume e affidate ad una corrente stanca. Lo stesso fiume dove ci stavamo trovando seduti, combattuti tra il restare o lo scappare, a debita distanza, sul più alto gradino di unica scalinata che scendeva fino a lambire l'acqua, là dove la vita continuava a svolgersi nella sua quotidianità.La scena nel suo insieme appariva come l'inneggiare profondo dei sacri rituali, espresso con movimenti umili e semplici. Splendide ragazze si immergevano completamente, scherzavano tra loro, si lavavano reciprocamente. Si insaponavano il corpo insieme alle vesti, ed infine s'insaponavano con maggior cura i lunghi capelli neri.Altre donne sciacquavano i panni inginocchiate sulla riva,mentre gli uomini, immersi fino al bacino erano intenti a interminabili abluzioni e il nostro sostare, distesi sull'ultimo lembo di prato rimasto verde, prima di cedere il passo agli scalatori diretti in alto verso le nevi perenni e vette troppo spesso invalicabili Nei pressi c'era l'unico casermone costruito con pietre , dimora di un campo stabile . Un funzionale punto d'emergenza e soccorso diretto da membri volontari delle nazioni unite. Così ci sdraiammo parlando alle cime del mondo,in un contatto reciproco e rispettoso, dato che noi, non avremmo mai osato violarle.
E poi il mischiarci nuovamente tra la gente locale di un mercato assai lontano. E anche qui l'inferno ci riprende per mano facendoci incontrare dei genitori europei venuti fin quaggiù, solo per mostrare a più gente possibile una fotografia sgualcita che da giorni stringevano tra le mani e porgendo a chiunque incontrassero sempre la stessa domanda trasformata ormai in litania:
"Lo hai visto?"
"La conosci?"
Infine, si infine il trattenerci tra i mitici sherpa. Parlare con loro. Popolo di eterni sognatori, guardiani dei ghiacciai e del cielo. Si lasciavano spesso alle spalle le mandrie di hyak, le loro donne, i loro figli per trasformarsi in uomini guida, caricarsi come muli, e concedersi nell'accompagnare altri idealisti verso l'alto. Sempre più in alto, fino a toccare l'intoccabile, in un baratto continuo della loro stessa vita.
La catena dell'Everest,la stessa ammirata alzando gli occhi quando eravamo in terra, si delinea sotto di noi adesso. Il Kanchenjunga, il Dhaulagiri e, avvolta ancora come sono nella magia, mi pare di vedere da quassù, anche i nostri amici sherpa mentre avanzano. Avanzano sempre. Li vedo curvi, li sento stremati, mentre procedono imperterriti verso un alba che si sta aprendo gloriosa. Rabbrividisco, e mi viene da pensare, in un attimo strano, tutto mio, al volo che si sta svolgendo, come se mi trovassi finalmente nel mio vero habitat, come se fossi nata e vissuta sempre quassù, mentre fuori dagli oblò si estende lo spazio con la terra. E la terra potrebbe essere uno dei tanti luoghi dove, a noi,curiosi, piace recarci di tanto in tanto in vacanza per poi ritornare quassù a "casa nostra".

Stiamo sorvolando Rangoon, Birmania, Estremo Oriente. Evviva! La temperatura esterna sta salendo. -52 gradi. Ci stiamo avvicinando al caldo tropicale. Alle nostre spalle abbiamo lasciato 7.828 km. Davanti a noi ancora un'ora e 18 minuti di volo.
A bordo ci stanno servendo la colazione, le luci sono accese, mi feriscono gli occhi per quanto sono forti. Walter è tornato a sedersi vicino a me. M'informa che il malato, immobile nel lettino pensile, è stato colto da una trombosi mentre si trovava in Italia. Adesso ritorna a casa sua a Sidney in Australia. Ha 70 anni.
"70 anni terreni o spaziali?" domando.
Davanti a noi, su poltrone tutte in disordine quattro rompiscatole vocianti fanno confusione da ore. Ma cosa avranno mai tanto da ciarlare?
Omlette, caffè, succo d'arancia, salsiccette, ancora piselli, dolcetto, cornetto. Non si fa che mangiare a bordo.
Instancabile, il piccolo aereo è ancora in movimento sulle sue carte geografiche, come noi, da ore ormai senza scalo. Lui costretto sul pannello, noi inscatolati e in movimento nello spazio.In questo momento, stiamo volando in simultanea, sull'Oceano Indiano in direzione Thailandia. Abbiamo appena superato Rangoon, rotta Bangkok. 8.322 km. dalla partenza 0.52 minuti all'arrivo 0.35 minuti all'arrivo.



B A N G K O K

"Parto, vado a Bangkok" ci dicesti deciso, pochissimo tempo fa, ormai grande, indipendente, con noi nel pensiero come sempre. Con te, immutato l'amore per la Thailandia ed il ricordo di un infanzia felice.
"Voglio sapere se mi emozionerò ancora scendendo la scaletta dell'aereo a Don Muang. Voglio vedere se è ancora bello sentire i peli che si drizzano sulle braccia per il troppo caldo e se i pantaloni si appiccicheranno ancora alle gambe per l'umidità. Voglio godermi i sorrisi di quel popolo, la bellezza delle ragazze!"

Le cinture sono nuovamente allacciate a bordo. Le sigarette spente. Ormai è giorno pieno. Sotto di noi si distinguono perfettamente le estensioni delle risaie, i moderni grattacieli, i ricchi templi dorati e la lingua grigia della pista d'atterraggio dell'aeroporto di Don Muang. La discesa ha avuto inizio. Le orecchie si otturano, i timpani fischiano. Il bimbo a bordo piange.

IMPATTO! TERRA!

Tra poco anche i peli delle nostre braccia si drizzeranno con il caldo tropicale di questa nuova giornata sulla terra.
Tra poco cammineremo per le strade di Bangkok, papà ed io, sui tuoi stessi passi. Noleggeremo una Hang Yao, la piroga dalla lunga coda. Navigheremo sul fiume Chao Phraya, la "grande madre". Partiremo poi per il Sud. Andremo a nuotare ancora nel Golfo del Siam
e decideremo se vale ancora la pena di vivere!


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