Mio padre comparve all'improvviso all'alba di una mattina alla villa di Firenze dove alloggiavamo la nonna, mia madre ed io.
Veniva da Roma e impazzito, si mise a battere sul pesante portone borchiato, con i pugni chiusi e duri.
"Irene, sono io. Aprimi". urlava come un dissennato...chiamava la moglie...urlava nella semioscurità di una piazza vuota.
Non era atteso, tanto meno a quell'ora del mattino.
Irene uscì dal nostro appartamento, per attraversare di corsa l'antico cortile.
Con sforzo non indifferente riuscì ad aprire da sola il pesante portone d'ingresso.
Si spaventò nel vedere il marito. Era sporco, la barba lunga, i vestiti sgualciti. Aveva gli occhi rossi di una persona che non dormiva da molto tempo... appariva magro e come inseguito dal diavolo.
Sulla soglia d'ingresso, alle spalle d'Irene, era comparsa anche nonna Granny adesso.
"Kukiny, cosa è successo? Mio Dio, come sei combinato!
Vado a svegliare subito la cameriera affinchè ti prepari un bagno caldo"
Gian Marco, o John, come già molti lo chiamavano, ridiventava "Kukiny" solo per la nonna.
Era davvero inseguito dal diavolo. Entrò in fretta nella proprietà, ignorando le domande delle due donne, che ora si accavallavano. Si richiuse il portone alle spalle, e dopo essersi assicurato più volte che fosse ben serrato, ordinò che non fosse più riaperto, per nessuna ragione.
Era in salvo. Almeno per il momento, e si godette quella pausa.

Pian piano il suo respiro, da convulso si normalizzò. Entrò in casa e venne in camera mia, a darmi il buon giorno. Mi prese in braccio e disse piano: "Adesso faremo un bel viaggio. Ti porto in Svizzera, bambina. Subito.
Ci sono le montagne più alte d'Europa dove andremo, e il tuo papà t'insegnerà a sciare!
Irene lo guardava come se fosse improvvisamente impazzito. John mi depose a terra e incominciò a programmare il viaggio
. "Irene fa le valigie immediatamente. Non portare tanta roba, due valigie al massimo dovranno bastare" poi, in francese, si rivolse a sua madre, che lo aveva seguito.

"Maman, dovresti darmi un pò di soldi. Hai ancora dei franchi svizzeri?"
La nonna era tornata in Italia, da qualche mese soltanto, dalla Svizzera appunto, dove aveva trascorso tutto il periodo della seconda guerra mondiale.
Aveva avuto così poco tempo, per conoscere la nipotina e la nuora, e adesso "Kukiny" arrivava come una furia e voleva portarle via, perciò si mise a protestare. Per tutta risposta, mio padre sparì nel bagno, mentre Irene, stava già tirando fuori da un armadio, l'unica valigia che avevamo e, un borsone militare sopravvissuto alla grande guerra.
Discutere era inutile. Inoltre, l'aspetto di John pareva davvero preoccupante.

Si aspettò, il calare della sera, per riaprire il pesante portone d'ingresso.
"Se qualcuno venisse a chiedere di me, maman, mi raccomando di assicurare che sono già in Svizzera"
. La piazza di Bellosguardo appariva deserta e buia. I lampioni non erano ancora stati riattivati. Le lampade della villa erano invece tutte accese, come per salutarci.
Noi tre, dopo aver abbracciato la nonna, ci incamminammo veloci, giù per la collina. Io, mi voltai appena già accennando ad una corsa, pensando che sarei presto ritornata.Sarebbero passati molti anni invece.
Attraversammo Piazza di S. Frediano. Costeggiammo Palazzo Pitti, prima di passare attraverso Ponte Vecchio, unico ponte rimasto intatto, dopo la ritirata dei tedeschi. Il Duomo mi parve maestoso al lume della luna. Cercai di fermarmi per poterlo ammirare meglio mentre una mano già mi trascinava avanti e avanti ancora, fino a raggiungere la stazione...
Era una lunga camminata per una bambina che barcollava ancora sulle gambette fragili.
Il corpo di mia madre pendeva da una parte sotto il peso del borsone militare stracolmo mentre non faceva che porre domande.
"Quanto tempo staremo via?"
John, stringeva una valigia con una mano, mentre con l'altra si teneva stretto ciò che nascondeva sotto la giacca a contatto con la pelle e pregava tra sè. Ad ogni passo chiedeva di trovare un treno pronto che avrebbe potuto avvicinarci alla frontiera

Nel febbraio del 1947, i giornalisti non stavano come oggi, seduti davanti ai loro computer personali, per ricevere, comodi, le notizie base su cui poterci ricamare sopra. Allora, erano soprattutto dei segugi, e per scrivere un articolo, dovevano prima procacciarsi la notizia, andarla a cercare e seguirne le tracce.
Dovevano tenere le orecchie sempre aperte e la bocca chiusa, se venivano a sapere qualcosa d'interessante, in modo da non lasciarsi sfuggire il servizio che avrebbe dovuto essere una loro esclusiva.
Alcuni giornalisti poi, ne inseguivano altri. Una continua lotta tra loro per cercare di scoprire per primo un avvenimento e non lasciarselo poi scappare.
Naturalmente, le notizie si rintracciavano di notte, quando gente poco raccomandabile, girava per strade deserte o si fermava a prendere l'ultimo caffé o goccio di vino nell'unico bar aperto e, la voglia di compagnia bruciava il corpo. Il desiderio di chiacchierare poi, li faceva sentire meno soli.
Nel primissimo dopo guerra pochi erano i bar aperti di notte, anche a Roma. Uno di questi si trovava al Tritone, vicino Piazza San Silvestro dove aveva sede la Stampa Estera.

John Pasetti era l'ultimo giornalista estero entrato a far parte del gruppo, ma primo tra i radiocronisti. Già lavorava, come inviato speciale per "Radio Lausanne". Collaborava per varie stazioni radiofoniche americane, scriveva su diverse testate internazionali.

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