Scesa da poco da un Jumbo Jet, all'aeroporto di Dong Muang, mi ritrovo seduta
accanto ad un ragazzo appena ventenne, l'autista della limousine. Mi sta
accompagnando a Pattaya. Lì cercherò i miei ricordi, per ricucirli insieme e,
provare ad accettarmi quale mi ritrovo adesso.Una persona interiormente diversa e
cresciuta troppo in fretta.
"Vedi, lungo questa strada, c'era una recinzione, lunga e forte, che cercava di
trattenere le tigri al suo interno" dico.
"Non ci sono mai state tigri da queste parti, madame!"
Guardo il viso del mio vicino nascosto dietro a dei Ray Ban troppo scuri.
"Oh si che c'erano! E una volta hanno anche azzannato un bambino che era riuscito a
sconfinare nel loro territorio!" Silenzio. Allora cambio argomento: "Ho visto
costruire questa strada sai. La stavano tagliando nella giungla, lunga e dritta
come una ferita. Qui degli uomini e delle donne lavoravano dall'alba al tramonto.
Delle ceste di ratan venivano riempite di sassi, caricate sulle spalle, e
depositate su dei camion. I lavoratori calzavano solo delle semplici "Bata" e
spesso i loro piedi venivano morsi dai cobra disturbati.Tutto questo per permettere
agli americani, sempre più numerosi, di raggiungere velocemente una delle loro basi
militari che si trovava vicino a Pattaya. Da li sarebbero partiti per andare a
combattere nel Vietnam. Si chiamava "Utapao"! Partivano ogni mattina, i famigerati
B.52, per ritornare alla sera. I piloti allora, cercavano la compagnia delle dolci
ragazze thai e le portavano nell'unico albergo che c'era, il Nipa Lodge. Anche io
vivevo là con la mia famiglia ". "Utapao? Utapao è un aeroporto civile, madame, gli
aerei che partono da li vanno verso Phuket, Chiang Mai, Songkhla." m'interrompe il
giovane. Guardo i suoi occhi a mandorla, il suo sorriso accattivante e smetto di
pensare ad alta voce.
Gli chiedo di fermarsi, lungo la strada, dove è apparsa una piantagione d'ananas, e
nonostante la stanchezza, le tante ore di viaggio accumulate, scendo dall'auto, per
lasciarmi andare a perdere tempo, a respirare in un clima tanto gradevole per me.
Cammino tra i raccoglitori sorridendo, congiungendo le mani così, com'è usanza qui.
"Sawasdee", "Buongiorno"e loro contenti giù a tagliarmi un frutto fresco dietro
l'altro, ridendo dei vestiti pesanti, toccando i miei capelli biondi. Ebbene si!
Si!
Li ho ritrovati.Questa è la mia gente, sto tornando a casa!"
Prem depone i bagagli all'ingresso di un albergo, relativamente nuovo e a me
sconosciuto di Pattaya Sud, che con gran sorpresa, adesso si fa chiamare "Pattaya
City".
"Come City"? Dov'è il villaggio dei pescatori? Dove sono i sampan con le reti?"
Dov'è il tempietto che sorgeva in quest'estremità della baia?"
Prem alza un braccio e indica con il dito un luogo sacro riccamente ornato d'oro e
specchietti, che erge su una collina, al posto delle decine d'alberi di teck.Mi
guarda e vedendomi confusa sorride, risale in macchina e avvia il motore pronto a
ripartire per la capitale. "Buona vacanza madame, verrò a riprenderti per
ricondurti a Bangkok quando vorrai" e mi lascia
sola con tutte le mie perplessità.
E va bene! Eccomi qui! Seguo un boy fino alla stanza dove mi aspetta un cesto di
frutta esotica, un biglietto di benvenuto scritto in quattro lingue ed un invito
per un cocktail nella terrazza che s'affaccia sul mare.
L'albergo è splendido, come tutti gli alberghi nel paese, sempre in competizione
tra loro in quanto a sfoggio d'eleganza e offerte di servizio. Cerco di liberarmi
in fretta dall'ultima sensazione di stress europea, immergendomi nella percezione
magica, di trovarmi in compagnia di persone che non possono essere materialmente
qui con me. Le sento ridere, scherzare tra loro e con me, battibeccarsi l'un
l'altro e trasmettermi una grande gioia di vivere.
Sono felice? Si, per qualche attimo, sono felice. Rido con loro all'unisono e mi
lascio andare su di un letto troppo grande per me sola, di traverso, con indosso
ancora parte dell'abbigliamento invernale, infilato in un altro continente tante,
troppe, ore prima.
Ripenso al nome: "Pattaya City" e mi viene da ridere! L'hotel si trova
all'estremità sud della baia, proprio alla fine del "Village", com'era chiamato il
quartiere composto da locali notturni, tutti rigorosamente all'aperto dove si
poteva vedere passando, come a teatro, tutto ciò che accadeva. C'erano gli
americani allora grandi e grossi, con ragazze thai sulle ginocchia. Piccole donne,
quasi bambine dai lunghi capelli lisci e neri. Giovani allegre e vocianti che
vendevano sesso con la mente rivolta a Budda. Accettavano dollari con il pensiero
rivolto verso le famiglie lasciate a casa, nei paesi di un Nord povero e rurale.
Che contrasto! Ragazze dal seno piatto e dalla carnagione di pesca con degli uomini
grossi e pelosi, supervitaminizzati, capelli tagliati a spazzola, esseri senza
cervello né pensiero, con due soli elementi del corpo attivi, la bocca per
ubriacarsi e il resto per scacciare la paura.
Una paura incalzante che li avrebbe poi piegati senza misericordia sotto la forza
d'altri piccoli uomini gialli, tutti con lo stesso nome "Charlie".
Era solo una strada in fondo, a formare un unico bordello, un corto tratto che
congiungeva una punta della baia alla giungla. Io la chiamavo "la strada perduta"
perché lì, tutti stavano perdendo qualche cosa d'importante, avvolti nell'euforia
che offre un paese confinante con la guerra.Le ragazze stavano dando l'addio alle
tradizioni, alle persone amate, l'addio alla capanna coperta di foglie di banano,
al bufalo sottomesso al giogo, alle risaie e alle rincorse felici lungo i klong.
Gli americani avevano salutato una patria distante, un college lontano, i canti
domenicali in una piccola chiesa anglicana. "Addio" al baseball rimasto laggiù.
"Addio" al promesso sposo venuto quaggiù.
"Perché lo fai Chanit?" domandavo alla ragazza distesa su una sdraio in riva al
mare.
"Così posso aiutare la mia famiglia, mandare dei soldi a casa, far studiare il mio
fratellino, comprare un altro bufalo" e sorrideva senza smettere di guardare il suo
uomo che sguazzava poco lontano dalla riva come un bambinone. Ecco ciò che
sconcertava in quelle giovani, la loro completa disponibilità di sentimenti. Si
affezionavano persino ai loro sfruttatori e soffrivano quando questi sarebbero poi
partiti. Talvolta rimanevano in attesa di bebè, meticci che sarebbero diventati
bellissimi. Avete mai visto un bambino biondo, occhi verdi dal taglio orientale e
la pelle ambrata? L'aborto non era mai preso in considerazione e la vita sarebbe
continuata per loro prostituendosi, ancora e ancora, aggiungendo bambini ad una
famiglia sempre più numerosa da mantenere. E si affezionavano sempre, niente
riusciva a distruggere il loro candore!
Mi sveglio congelata da un aria condizionata che gira al massimo. Per me senza il
cambio del fuso orario sono le quattro del mattino qui, a Roma 10 di sera.
"E adesso che faccio!" mi dico girando per la stanza e spogliandomi finalmente da
panni troppo pesanti. Alzo la cornetta e telefono a Roma, a Walter.
"Che tempo fa lassù?" chiede
"E che ne so..è notte fonda e in stanza c'è l'aria condizionata!"
"Beata te! Qui sta quasi nevicando"
Devo aspettare l'apertura del ristorante per scendere a far colazione. Potrei
alzare nuovamente la cornetta ed ordinare ciò che voglio. Il servizio in camera è
disponibile 24 ore di seguito qui, ma non vorrei disturbare chi forse si trova
disteso in un momento di pausa. So bene che per quattro soldi qui si lavora 12/13
ore di seguito, senza mutua, pensione o riconoscenza.
Indosso quindi sandali e shorts, dopo una lunga doccia ristoratrice e mi reco sulla
spiaggia. In Thailandia mi sento tranquilla. Non succede mai niente che tu non
voglia che accada. C'è il rispetto qui, per tutti, anche se troppi occidentali lo
ignorano. Non c'è da stupirsi quindi se una donna gira da sola, o se due uomini si
abbracciano. Fa parte del loro modo di pensare buddista, una filosofia difficile da
comprendere e ancor più da accettare. I Thai non dimenticano mai il ciclo delle
rinascite, così un bonzo potrebbe essere stato un fratello in una vita passata, una
studentessa una madre, e altri legami famigliari potrebbero unire chiunque ad un
pescatore, un contadino, una ballerina o un gay. Così tutti convivono tranquilli
rispettandosi e non smettendo mai di sorridere.
Questo era il modo di vivere che io ricordavo in un Thai.
Cammino piedi nudi adesso, sentendo il piacere d'una sabbia finissima scivolarmi
tra le dita. Rasento l'acqua tiepida e calma del mare che si sta lentamente alzando
con la marea. Alzo gli occhi ad un cielo pronto a tingersi di rosso e abbraccio,
con lo sguardo, la baia nel suo insieme, nel suo tutto. Le albe e i tramonti sono
veri e propri incantesimi della natura, ai tropici, ripetitivi come il susseguirsi
dei giorni, eppure sempre diversi. Tutto si svolge molto rapidamente. Ti siedi in
riva al mare, hai appena il tempo di fumare una sigaretta e l'incanto è già finito.
Voglio vivere il più possibile la vita locale, mischiarmi con la gente, ritrovare
forse qualcuno che ho conosciuto, curiosare tra la vita delle nuove generazioni e
il mutare dei tempi, avvenuto in un periodo così breve. Perché se i cambiamenti si
susseguono in tutto il mondo, qui le trasformazioni sono addirittura fulminee. Ci
vogliono anni per costruire un grande albergo da noi, qui un paio di mesi
soltanto.Ci vogliono secoli per costruire un pezzetto di metropolitana a Roma.
Qui bastano pochi mesi per sotterrare i "klongs" facendoli diventare
autostrade. Purtroppo si distruggono anche foreste trasformandole in spiagge o
paesi che in altrettanto pochissimo tempo diventeranno porti o città. Bisogna
correre in Thailandia, e correre veloci per assaporare ciò che resta di
tradizionale e genuino.
Da noi, in Europa, il Natale è trascorso da poco, mentre qui sta esplodendo la
stagione balneare che confonde l'odore degli abbronzanti con quello della frutta
tropicale, il profumo intenso dei fiori rigogliosi con quello inebriante degli
incensi.
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