Mi sono addormentata nella più piccola delle stanze di casa, sola.
Accade di rado, quando sono molto inquieta oppure quando cerco di nascondermi.
E’ un accoccolarmi nella posizione embrionale, il mio, le mani giunte, tanto strette da imbiancare le nocche delle dita fino a sentir dolore. Lo faccio quando voglio nascondere dei gesti segreti, quando le parole escono senza controllo, dalla mia bocca sussurrate, cercando aria senza farsi udire.
“Aiutami Cristo! Aiutami! Non posso più proseguire da sola, non ce la faccio…”
Un pugno duro spinge forte sullo stomaco. Mi toglie il respiro. Mi nascondo così, quando i miei stessi pensieri hanno paura e chiedono di essere celati.
Mi assopisco e mi risveglio per assopirmi di nuovo.
Passano così le ore, nel tormento fino a quando mi sveglio del tutto. Allora mi siedo sulla sponda del letto. Il corpo è interamente bagnato da un sudore freddo, gelido, sudaticcio.
Sono colta da tremori fortissimi adesso. Non riesco proprio a fermarli!

“No" sussurro “no, nooo” in un crescendo di voce fino a gridare.Walter si sveglia a sua volta dalla stanza vicina, la nostra camera matrimoniale, lo sento brontolare, disturbato nel suo sonno, rompendo ancor di più il silenzio della notte.
“Cosa c’é!…cosa…” continua pur raggiungendomi.
Devo avere un’aria spaventosa, sotto la luce di una lampada accesa all’improvviso e che mi ferisce gli occhi, tanto da fargli dominare i rimproveri per averlo così bruscamente risvegliato.
Si siede persino vicino a me e lo sento cingermi le spalle teneramente.
“Non fare così, dai calmati. E’ stato solo un brutto sogno. Vieni di là …fa freddo qui.”
“Ho sognato mia madre” dico rimanendo nell’ostinata immobilità in cui mi trovo.
“L’avevano fatta a pezzi, tagliata con un’accetta. Delle donne ne stavano portando via i pezzi in sacchi dell’immondizia. Sacchi pesanti, grigi…”
“Non essere ridicola, è stato solo un incubo. Domani mattina andremo a trovarla, va bene?”
Mi lascio trascinare nel nostro letto, gli occhi sempre sbarrati nel terrore, e non mi addormento più.
Cerco di stare ferma al suo fianco, di tenere strette le labbra, ma continuo a tenere le mani giunte e tanto strette da sentir dolore.
Per ore continuo a supplicare un entità dentro di me:
“Aiuto, aiutami …”
Nella tarda mattinata il mio viso è ancora sconvolto. I movimenti del corpo sconnessi. Distrattamente faccio colazione ed è già tardi.
“Vuoi che andiamo a casa d’Irene? Sai bene che non ha il telefono. Il solo modo per tranquillizzarti è andare…Magari c’invita per il pranzo e su questa brutta notte ci berremo tutti sopra!”

L’aria di superiorità di Walter, il farmi sentire, troppo spesso come una demente, mi ha dato sempre un gran fastidio, figuriamoci adesso.
Alzo le spalle e cerco di minimizzare ciò che mi scuote dentro come un presagio.
“E’ stato solo un brutto sogno, passerà…”
Anch’io, adesso, incomincio a sentirmi un poco ridicola.

Così lascio trascorrere giorni, settimane, un paio di mesi forse, frastornata, da personali problemi irrisolvibili e continuando silenziosamente a chiedere aiuto. Presa come sono, in un profondo e personale dolore, non mi domando, come mai il telefono tace, come mai mia madre non mi sente chiamare con la voce del silenzio, non risponde alle mie invocazioni.A volte Walter, vedendomi pensierosa, riprende il discorso.
“Andiamo a vedere come sta' la vecchia. E’ imbranata sai, magari si è offesa per chissà cosa e non si fa sentire…”
Infastidita, cerco d’allontanare l’immagine spiacevole di mia madre.
“Lasciamo stare. Fa sempre così quando ha di meglio da fare, quando ha altra compagnia. Sparisce…”

“Madre” il vocabolo mi suona estraneo, stonato…mia madre!
Raramente, parlo di lei con qualcuno, e quando ciò accade, uso sempre la parola “madre”, mai “mamma”.
Irene è una donna eccentrica, allegra talvolta, di un’allegria grossolana priva di qualsiasi senso umoristico.
Nel suo stare insieme con altri guida lei l’allegria, palesando sempre il disprezzo verso il prossimo. Conduce sempre lei ogni conversazione. Un modo tutto suo di comunicare, da primadonna e in ogni occasione…Guai contraddirla!
I suoi atteggiamenti sono spesso opprimenti, inopportuni, e se qualcuno si ribella, lei passa all’attacco frontale e la spensieratezza iniziale diventa baruffa, offesa, scenata.
Spesso si mostra anche generosa, all’inizio di una conoscenza, o quando si accorge di avere esagerato nel suo comportamento, di aver ferito qualcuno. Talvolta lo è anche senza motivo. Allora è disarmante, fa quasi pena, ed è consolata volentieri, coccolata come una bambina.
Poi, con una sicurezza ritrovata, passa nuovamente all’attacco e allora lo sconcerto dei presenti è grande. Non si fa più comprendere e cercando di evitare ogni controversia con lei, si cerca anche di evitarla come persona. E’ difficile, per chiunque, andare d’accordo con Irene, se non seguendone silenziosamente gli umori, sempre mutevoli, e non esprimendo mai un’opinione propria.

E’ stata una donna invadente durante il breve periodo di vita nella mia casa paterna. Soleva entrare ed uscire dalla scena a suo piacimento, non rispettando mai la mia privacy.
Fu allora forse, che presi l’abitudine di nascondermi in un angolo, quando qualcosa mi pesava sul cuore, e prendere quella ridicola posizione embrionale. Verso la vita, mia madre, aveva sempre un atteggiamento di rivalsa, di vendetta personale…

Irene è nata in un piccolo paese della Svizzera tedesca, al confine con la Germania. Ne parla spesso, con nostalgia. Racconta di un appartamento sotto i tetti con le finestre affacciate sul fiume Reno. Dall’altra parte del fiume si affaccia la Germania. Parla con rimpianto delle sue nuotate in quel fiume senza pertanto aver mai potuto raggiungere in alcun modo l’altra sponda.
Era affacciata ad una finestre del sottotetto nel quale allora abitava forse, tanti anni prima, sognando l’impossibile traversata, quando alle sue spalle udì uno sparo. Uno solo secco e crudele. Si girò, verso l’interno della stanza e vide suo padre stramazzare al suolo in una pozza di sangue, stringendo ancora nel pugno la sua pistola.
Aveva dodici anni Irene allora, suo fratello Fritz due di più…
Pochi mesi dopo anche la loro madre morì, di crepacuore, ricorda lei. Il corpo fu portato via di nascosto dalla casa da persone pietose, mentre delle istituzioni non altrettanto generose, si presero cura dei due orfani affidandoli alla custodia di un tutore. Questi ne consumò tutti gli averi non aspettando che loro raggiungessero la maggiore età per poterne disporre. E qui la strada dei due fratelli si separa.
Fritz rimane in Svizzera, eclissandosi definitivamente con il trascorrere del tempo, mentre Irene, ormai adulta, si avventura da sola in un viaggio in Italia.
La seconda guerra mondiale la sorprende a Firenze. In quel periodo, conosce John. Un rampollo dell’alta società fiorentina. Si sposano, nonostante le difficoltà di quegli anni, e la vita incomincia a divenire generosa con lei. John è un uomo benestante, colto, piacevole, a tratti addirittura affascinate. Un uomo sempre circondato da persone di valore, lanciato verso un futuro brillante. Un uomo di cui lei si sarebbe avvantaggiata spesso.
Con la mia nascita poi, ha potuto anche contare su una figlia, su cui scaricare i suoi umori tristi, sereni, turbolenti o violenti che fossero.
"Non è cattiva, poveraccia…La vecchiaia è dura per tutti” dicono adesso di lei. Io l’ho sempre conosciuta così, con il suo eterno approccio: "Tous passe, tous casse, tout lasse arrange toi donc!”. Tutto passa, tutto si rompe, tutto ci lascia quindi arrangiati!

Il mio mondo, al tempo in cui vivevo ancora con lei, si svolgeva in una dimensione diversa, un’altra lunghezza d’onda. Avevo duramente provato ad intercettare i suoi sentimenti, andarle incontro, spiegarle quanto anch’io avessi avuto bisogno d’attenzione, prima di arrendermi, considerando inutile il continuare a leggere poesie a chi ne rifiutava l'ascolto, inutile il suonare un concerto muto d’invocazioni, di suppliche d’affetto , a chi si mostrava ostinatamente sordo.
Chiedevo ormai solo di poter restare in un angolino appartata con la mia fantasia per sentirmi meno sola, finché la vita avvolse anche me, con le sue gioie e i suoi tormenti. Mi è rimasto addosso, nei momenti difficili, quel modo strano di volermi appartare e cercare la stupida posizione embrionale.
In questo momento vivo in uno di quei periodi di difficoltà, uno dei più lunghi mai avuto e non sopporterei proprio, adesso, di sentirmi la sua spiacevole presenza addosso….

E intanto il tempo continuava a passare…e poi fu chiesto ad un estraneo, di preoccuparsi per me e di andare a vedere come stava.
L’uomo, il conoscente,suonò ripetutamente il campanello della porta di casa, dove Irene abitava sola. Non rispondeva nessuno.
Qualcuno gli disse che nel appartamento la luce era vista lasciata accesa da molti giorni, la si poteva vedere, dalla strada, attraverso le sue persiane lasciate socchiuse. L’ auto di Irene, inoltre era parcheggiata male da troppo tempo, all’ingresso della palazzina in cui abitava. In molti se ne erano lamentati senza pertanto riuscire ad entrare in contatto con lei, ma il nostro conoscente oggi s’insospettisce, non ricevendo risposta ai ripetuti suoni di campanello, e alla fine ci comunica i suoi sospetti…….
Adesso non mi restava altra scelta! Incubi o non incubi dovevamo andare…

“A che età si ha il primo ricordo nella vita” chiedo più a me stessa che a mio marito, seduta in auto accanto a lui, tanto per scacciare un brutto pensiero, mentre egli guida la nostra auto in direzione della capitale..
“Nell’occasione di un'emozione forte, violenta a volte” mi sento rispondere.
Percorriamo così l’autostrada che separa la mia abitazione di campagna, da quella romana di mia madre. Cerco intanto l’antico mio primo ricordo. Non è difficile trovarlo. E' sempre lì, in agguato, pronto a riempirmi di sorda ribellione.
Era primavera a Firenze.
Su una delle sue colline, nel giardino di una grandiosa villa, era tutto un allegro sbocciare. I prati, con l’erba tagliata all’inglese, apparivano di un verde perfetto. I passeri cinguettavano garruli incuranti di ciò che stava per accadere.
Un mio avo aveva voluto piantare un ciliegio, divenuto gigantesco sul prato, proprio di fronte alla porta finestra del salone principale, poteva così uscire e trovarsi sotto le sue fronde e , se la stagione era propizia coglierne un frutto solo allungandone pigramente la mano…Questo accadeva molto tempo addietro, ma nei miei ricordi d’infanzia il ciliegio esisteva ancora ,sopravvissuto agli innumerevoli eventi storici e famigliari.
Ora, appoggiato tra intrecci di rami di quell’albero appena fiorito, dondolava il corpo agonizzante di una donna. Aveva la colonna vertebrale spezzata. Sotto l'albero, degli ufficiali in divisa ridevano con lo sguardo rivolto verso l’alto. Avevano delle bottiglie semivuote in mano, gesticolavano vistosamente ed erano visibilmente ubriachi. Mi rivedo bambina, immobile sulla porta-finestra di quello stesso salone . Indosso un bel vestitino rosa, come i fiori del ciliegio, e porto una coroncina di margherita sulla testa. Voglio andare a raccogliere altre margherite, uscendo dall’interno della villa.Sento ancora mia madre correre alle spalle, raggiungermi per poi fermarmi. Le sue mani pronte a coprire i miei occhi, per la prima volta sbarrati, davanti all'atroce visione. Cercai di scappare allora, dirigendomi nuovamente verso l’interno, mentre Irene gridava ai soldati :
“Non davanti a lei…E’ solo una bambina!” Lo aveva gridato in tedesco, ne sono sicura e ciò che ancora mi sorprende è l’aver capito ciò che aveva appena detto, ma io, ancor oggi non parlo ne comprendo il tedesco..
.Per anni mi raccontò poi, quando ne chiedevo spiegazioni, che anche allora,avevo sognato, che avevo inventato il sogno forse o che avevo troppa fantasia…

La seconda guerra mondiale terminò più o meno in quel periodo della mia infanzia, tornavo a veder sorridere intorno a me e qualcuno mi regalò cinque piccole papere. Ero una bambina molto sola e su di esse riversai tutto il mio amore infantile che fu solo l’inizio di un profondo rapporto che avrei instaurato in seguito con qualsiasi essere animale con cui sarei poi entrata in contatto
Passavo le ore con le mie papere, nell’orto adiacente al giardino, cercando di dimenticare prato verde, margherite e ciliegi.
Loro, in fila indiana, mi restavano sempre vicine. Seguivano I miei passi, e se correvo, correvano con me, starnazzando, aprendo le ali per acquistare velocità, cercando di stare al passo alle mie gambe di bimba. E quando mi resi conto che ne mancavano due ,corsi a cercare mia madre , cosa che facevo di rado, cercandola disperatamente per le stanze di una villa già ostile.
“Due papere si sono perse” dissi disperata “Aiutami a cercarle!”
“Sciocca bambina” rispose lei “cosa credi di aver mangiato oggi?”.
Eppure nei miei ricordi non erano mai esistiti gli stimoli della fame, quindi non seppi darmi pace, non trovai giustificazioni per l’ingiustizia subita… Mi fu detto che stavo crescendo come una ribella, una selvaggia, così fui allontanata, mandata in Svizzera, per un po’…
Lì trovai però l’appoggio, la complicità nella nonna paterna. Si era rifugiata in quel paese neutrale prima della seconda guerra mondiale e non aveva, per il momento, intenzione di ritornare in Italia. Conobbi così una donna altera, molto distaccata e molto snob, però sapeva amarmi. Un amore costruito sui miei slanci e sui suoi poco convincenti sforzi per frenarli.
“Non è bene che esterni così i tuoi sentimenti, cara” diceva, mentre i suoi slanci verso di me, diventavano altrettanto appariscenti.
La nonna anglosassone apparteneva ad un mondo in via d’estinzione, fuori moda. Si accaniva a farmi prendere lezioni di piano, di ballo, di comportamento e di buone maniere. Pretendeva persino che io m’inchinassi nel salutare una signora anziana. Ma se da una parte era rigorosa, dall'altra mi viziava spudoratamente.
Mia madre, in seguito, ci raggiunse, lasciando in Italia un marito troppo preso dalla propria vita, e io tornai nuovamente a vivere con lei, non lontano dall’abitazione della nonna. Mi dividevano così due educazioni differenti spesso difficili da condividere. Un crescere tra una madre severa e una nonna generosa.

Quando indossavo un vestito elegante ricevuto in regalo dalla nonna, mia madre commentava: “Pagliacciate” rivestendomi, a sua volta, da maschietto. Mortificava poi i miei lunghi capelli facendoli tagliare cortissimi e mi prendeva in giro quando mi arrampicavo su un albero del bosco intorno a casa, alla nuova ricerca dell’angolo nascosto, della tana.
Questo comportamento sconcertava invece la nonna che ormai non poteva che limitarsi, impotente, a sospirare
Una lotta di classe divideva queste due donne, e le loro rimostranze durarono quasi mezzo secolo. Naturalmente anche queste venivano vissute diversamente. Con eleganza e stile da una parte, con plateali offese dall’altra. La più anziana delle due, ritornata a Firenze continuava a condurre una gran bella e facile esistenza circondata da agi e prestigi, mentre l’altra, tornata in Italia, a Roma con me adolescente, si arrabattava spesso per procurarsi l’essenziale per vivere seguendo il ritmo di vita troppo frettoloso e dissipatore di un marito, al quale nonostante tutto restava accanto sapendo che presto sarebbe diventato padrone di una grande agiatezza. Ma presto quanto? La nonna era usufruttuaria delle proprietà e non aveva nessuna intenzione di lasciarle troppo presto.
“Al suo funerale berrò fiumi di champagne!” gridava spesso Irene, nel nostro appartamento romano concludendo un perenne discorso, diventato monologo ormai mentre suo marito, figlio unico della donna in questione, usciva di casa e non l’ascoltava già più. E certamente non l’udiva sua suocera , forse intenta a quell’ora ,a farsi servire la colazione in un giardino fiorito,e programmando la sua presenza ad un concerto serale.
Io soffrivo invece. Avrei voluto passare del tempo a Firenze, chiedere delle mie radici famigliari, respirare l’aria delle mura tra cui ero nata, ritrovare la complicità con una nonna costretta ad amarmi solo nella distanza.

E con il mio crescere, esprimendo desideri e opinioni proprie, crebbe anche la gelosia di mia madre verso di me. Tutta la vita sarebbe stata gelosa... della ragazza che stavo diventando, di ciò che la vita mi stava offrendo, di ciò che poi avrei saputo conquistare...
Mio padre era il grande assente, occupatissimo com’era nel suo stare al mondo.
Così, tra Svizzera e Italia. Tra Firenze e Roma e dintorni incontrai il compagno della mia vita e cercai finalmente d’essere padrona unica e sola della mia esistenza. “Caro Walter” lo chiamava la nonna facendo scivolare la sua erre moscia su una voce rauca e profonda “Un musicista, un essere sensibile!” “Un ribelle, rivoluzionario e anarchico” lo definivano invece, entrambi i miei genitori.
Lasciai senza rimpianto la casa paterna, in una mattina che prometteva pioggia sotto un cielo arrabbiato che minacciava tuoni, fulmini e saette, andando per la mia strada incontro alla vita scelta da sola, distaccandomi completamente dalla sopraffazione altrui, lanciata verso una libertà di pensiero solo e totalmente mio. Non ero più la rivalsa di nessuno, ormai possedevo una libertà mentale conquistata duramente, in cui però, non riuscii mai ad abbandonare totalmente la ricerca di un particolare angolino nascosto, una stupida posizione embrionale.

Con la morte della nonna prima, e di papà subito dopo, Irene riuscì finalmente a diventare una primadonna, ricca e protagonista assoluta, ma l’attesa,troppo lunga, l’aveva incattivita, così la rivalsa su tutto e tutti divenne il “light motive”, il “clou” d’ogni sua azione.
Ogni suo gesto era proteso a schiacciare il prossimo per sentirsi forte. Continuava, di tanto in tanto, ad avere dei pensieri gentili, poi la pazzia prese il sopravvento su di lei.Le divenne quindi facile essere circondata da persone senza scrupoli, approfittati e sciacalli. Persone che la lusingarono inizialmente, la circuirono per poi toglierle tutto.

Ed eccoci arrivati a Roma,Walter ed io. Siamo sul piazzale dove si trova l’abitazione di Irene.La nostra auto si ferma di botto, come l'impuntarsi di un asino, in un punto qualsiasi adesso.
Sotto la casa di mia madre, vedo un andirivieni di pompieri e poliziotti. La piazza è ingombra d’auto ufficiali. Mi ritrovo così a pregare ad alta voce, affinché possa ritrovarmi ancora a far parte di un incubo. Che mi sia data la possibilità di un qualsiasi risveglio.
“Aspetta qui” mi dice Walter e nella fretta di scendere dalla macchina, lascia aperto lo sportello e il motore acceso. Lo vedo correre verso la palazzina ove abita Irene, sparire nell’atrio dove delle scale lo porteranno all’appartamento. Noto un poliziotto seguirlo velocemente.
Io mi attardo, poi prendo coraggio e scendo anch’io dall’auto mentre qualcuno si avvicina, mi tende un braccio e si prende cura di me ,spengendo il motore e chiudendo gli sportelli dell’auto.
“Che cosa è successo a mia madre”.
Guardandomi appena, l’uomo risponde, seccamente:
“E’ morta.”
E’ un pomeriggio di festa a Roma. Pochi i passanti.
Cerco una chiesa con lo sguardo. Ho voglia di pregare, io che credente non sono. Ho voglia di picchiare, io che violenta non sono…cerco di scappare, io che vigliacca non sono…poi faccio l’unica cosa che mi resta...Corro a mia volta, saltando la maggior parte degli scalini di un palazzo che mi sembra tutt'un tratto troppo alto, ansimando per trovarmi in un atrio affollato di gente.
Walter mi vede e si piazza davanti a me impedendomi ogni altro passo.
“Non entrare in quella stanza. Fermati qui”.
Mi blocco come se le gambe s’imprigionassero per incanto dentro a morse di cemento. Degli uomini e delle donne girano intorno ignorandomi. Divise da poliziotti, da pompieri, da infermieri… Molti di loro, si tengono dei fazzoletti sulla bocca, delle sciarpe sui volti. Vorrebbero certamente fuggire da lì, come me. Nessuno di noi può farlo. Loro per questioni di servizio. Io, perché Irene è mia madre! Vedo una poltrona scivolare per il saloncino dove siamo in troppi. Si ferma dietro di me e mi costringe a sedermi, anzi a sprofondarci dentro quasi a voler sparire.
Riprendo in mano il sogno. L’immagino nella sua stanza, in fondo al corridoio, tagliati a pezzi…eppure nessuna lacrima bagna il mio viso, né tristezza viene mostrata, solo incredulità, impreparazione.
Gli occhi sono ancora una volta sbarrati…sulla porta blindata dei miei sentimenti. Osservano, percepiscono, annotano meccanici. Vedono arrivare, altri uomini con strane boccette in mano. Spargono polveri, raccolgono dei fogli sparsi. Appuntii di pazzia, scritti al vento. Una folla in quel piccolo appartamento. Mille le domande. Walter cerca delle risposte. Io cerco il silenzio, sento il freddo dentro, cerco di seppellire ancora una volta ,al loro emergere, delle emozioni crudeli.
Irene è davvero protagonista oggi, diva di un ben triste finale. Esce dalla scena con violenza così come violenta è stata parte della vita verso di lei.
Una poltrona pare avanzare da sola, appoggiarsi al mio corpo e costringerlo a sedersi, mentre la mente ancora una volta mi porta lontano.
Dal salottino d’Irene adesso sono spariti tutti per incanto. Tutto tace…sono sola, lo sguardo rivolto al pavimento. Qualcosa mi costringe ad alzare gli occhi e li trovo riflessi in quelli di un giovane uomo in piedi davanti a me. Ha in pugno una pistola. Intuisco un gesto assurdo, intuisco che se la porterà alla tempia. Gli grido qualcosa, cercando di fermarlo…. Lui non comprende la mia lingua ma mi accorgo che vuole tranquillizzarmi, farmi capire che in fondo stò solo sognando… Presto aprirò gli occhi e la vita riprenderà a scorrere nella sua normalità.
Eppure non si arresta, lentamente il suo braccio destro si alza, e l’arma si ferma appoggiandosi sulla sua tempia. Nell'immobilità dell'aria I suoi occhi continuano a fissarmi, con dolcezza, come per chiedere scusa. Parte un colpo, uno solo, sordo e crudele e mentre il sangue inonda il pavimento.. Sussulto nuovamente immersa nel terrore per ritrovarmi nuovamente proiettata nella confusione che riscalda l'appartamento di Irene……
Dalla finestra poco distante osservo l’arrivo di un furgone colore catrame, mostruoso, senza vetri, con una sola apertura posteriormente. Si ferma, parcheggia e aspetta… Davanti a me, sempre inchiodata su una poltrona, piegata su me stessa, fanno passare un corpo, rinchiuso in un sacco nero…

E’ buio ormai. Anche questa giornata volge al suo termine. Sono andati veramente tutti via adesso…L’ultimo ad uscire ci ha messo in mano le chiavi di una casa che non ci appartiene. Con fatica mi alzo, e mi trascino verso la porta d’uscita. Walter mi segue in silenzio sospingendomi dolcemente.
Infine, ci richiudiamo alle spalle la porta di quella che era stata l’ultima abitazione di mia madre, cercando ossigeno, spegnendo la luce sul silenzio… e solo ora intravedo Mutzi…

Mutzi, il mio orsacchiotto di bimba, buttato sbilenco sopra una poltrona, la stessa sulla quale qualcuno mi aveva fatto sedere molte ore prima … L’orsacchiotto che per anni mi aveva tenuto compagnia…e che avevo dimenticato…e la porta dei miei sentimenti si dischiude per farne uscire un solo lamento: “Mamma"




Valid XHTML 1.0 TransitionalCSS Valido!